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The Affair, o dell’imprendibile relatività del vero

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Part I – Alice

La memoria fa brutti scherzi: è qualcosa che si dice spesso, ma la verità è che nessuno di noi è davvero in grado di sapere come, quando e quanto. Ricostruire con qualcun altro un medesimo avvenimento del passato è come mettere insieme i pezzi di un puzzle, solo che i pezzi, qualche volta, non si incastrano in nessun modo. Anche perché un ricordo è una storia che ognuno di noi si racconta: la narrazione ha le sue regole, le sue strutture (per quanto labili), e una voce che non può, mai, essere imparziale. Naturalmente, lo stesso funziona per le serie televisive (e per i film, i romanzi, e via discorrendo). Terminato il pilot di The Affair, qualcuno l’ha definito il True Detective dell’adulterio. Il paragone può starci oppure no (conta molto quel che pensate di The Affair e di True Detective), ma entrambi gli show hanno in comune una tripla coincidenza: la storia che raccontano è filtrata dal racconto (inaffidabile) di qualcun altro, ambedue finiscono per riflettere sull’ambiguità del ricordo e della narrazione, e in definitiva aggiungono un ulteriore livello meta, riflettendo sui modi e sul senso profondo dello storytelling.

the affair2Poi, certo, The Affair parla di una relazione extraconiugale. Ci vogliono due persone per ballare il tango, e dunque ci sono due punti di vista per questa vicenda. Ogni episodio è diviso in metà perfette, nella prima vediamo la vicenda dalla prospettiva di Noah, nella seconda la osserviamo dalla parte di Alison (solo in un paio d’episodi l’ordine viene invertito). Chi sono, Noah e Allison? Soprattutto, due stereotipi. Lui: insegnante, aspirante scrittore, ha pubblicato un libro che non ha letto nessuno, ha sposato molti anni fa una donna ricca, figlia di un romanziere di successo, grazie a cui può permettersi di vivere in una bella brownstone newyorkese, insieme alla moglie e a quattro (mediamente insopportabili) figli. Lei: fa la cameriera in un ristorante sul mare a Montauk, meta estiva negli chicchissimi Hamptons, ha un marito taciturno che gestisce con la numerosa famiglia un ranch, è in costante crisi coniugale in seguito alla devastante perdita del primo e unico figlio. Si incontrano, la chimica si accende istantanea, il tradimento dei rispettivi coniugi è inevitabile; meno inevitabile, forse, l’omicidio di qualcuno (ci vorrà qualche episodio per scoprire di chi si tratta) nel quale i due sono coinvolti.

Ci sono – soprattutto dall’esplosione della nostra amata Golden Age of Television – una manciata di serie tv che si ingabbiano dentro binari rigidi e traggono da un’impostazione superficialmente riduttiva la forza per essere originali, rilevanti, spettacolari. A me viene sempre in mente 24, e quella cosa per cui inizialmente c’era solo l’idea di fare una serie in tempo reale, ogni puntata un’ora e ogni stagione un giorno, e Jack Bauer, il terrorismo, perfino il genere thriller-action (sarebbe potuta essere una commedia pre-matrimonio, a un certo punto ci hanno pensato seriamente) sono venuti molto dopo. Di più: gli autori hanno imparato come scrivere 24 solo scrivendo 24. Hagai Levi, invece, ha creato In Treatment grazie all’intuizione semplice e geniale della frequenza di messa in onda offerta dalla tv: una serie è un appuntamento settimanale fisso, e cos’altro è (per qualcuno) un appuntamento settimanale fisso? La seduta dallo psicanalista. Sarah Treem, l’autrice di The Affair (e fresca vincitrice di un Golden Globe per miglior serie drama), viene dalla writing room di In Treatment e insieme a Levi firma il nuovo drama Showtime: ma guardando The Affair mi sono trovata a pensare più spesso a 24 che a In Treatment.

Cerco di spiegarmi: in The Affair la specificità della storia non mi sembra così importante. È il racconto della relazione extraconiugale di Alison e Noah, di come evolva da torrido flirt estivo a rapporto più profondo e intenso, di come sconvolga, a effetto domino, le vite di coloro che li circondino. Ma sarebbe potuto essere tranquillamente anche qualcos’altro, perché quello che prevale è la struttura bipartita, il doppio punto di vista e ciò che svela dei personaggi, di come sono e di quello che fanno. Certo, 24 non sarebbe potuto essere probabilmente diverso, nel momento in cui gli autori si sono accorti che solo un costante (e soapoperistico) bombardamento d’emergenze avrebbe potuto reggere la struttura in tempo reale, ma è comunque la suddetta struttura a primeggiare sul contenuto.

Episode 102The Affair si muove in un territorio più familiare e quotidiano rispetto a, che so, lo scenario geopolitico internazionale, un’isola fantascientifica ricolma di misteri e wtf, un carcere di massima sicurezza da cui fuggire. Di matrimoni andati a male ce n’è purtroppo a ogni angolo, a chiunque è capitato di avere a che fare conun tradimento, pure se solo vagheggiato, ma anche con l’insoddisfazione nei confronti della propria esistenza, che è poi quello di cui parla davvero la serie. Nei suoi momenti migliori The Affair ci risuona dentro perché ci dice qualcosa di come funzionano la nostra testa e il nostro modo di rapportarci con gli altri. Siamo spesso gli eroi delle storie che ci raccontiamo (come Noah e Alison, ognuno dei quali, nel pilot, è convinto di aver salvato dal soffocamento la piccola Solloway), tendiamo a giustificarci il più possibile per le nostre scelte, soprattutto con noi stessi (sempre nel pilot: nella memoria di Noah, Alison è provocante e sfacciata, in quella di Alison è lui a fare il brillantone), siamo, nel nostro cervello, la nostra versione contemporaneamente migliore e peggiore. The Affair accende un brillante e impietoso riflettore sulla meschinità umana, sui modi in cui ci illudiamo e ci prendiamo in giro, sui piccoli e disgustosi egoismi che ci permettono di sopravvivere, ed è forse per questo che, se inizialmente possiamo essere dalla loro parte, comprendere le loro motivazioni, Noah e Allison alla fine un po’ ci disgustano, entrambi (o almeno, è quello che è successo a me).

Naturalmente non bisogna trascurare l’interlocutore di entrambi, il detective che fa da device narrativo, offrendosi come ascoltatore intradiegetico: il “mistero” sulla morte di Scotty è un filo debole, un espediente farlocco e a conti fatti inutile per sollevare la tensione episodio dopo episodio, hanno detto in molti. Eppure, seppure non mi freghi granché di sapere chi sia (se ci sia) l’omicida, la presenza del detective aggiunge un altro tassello alla struttura di The Affair, e personalmente è quello che ho trovato più affascinante e addictive: l’impossibilità di avere la certezza che i punti di vista di Noah e Alison siano davvero ricordi, l’impossibilità di definire una qualsiasi verità con un grado anche minimo di certezza. Quelle che vediamo sono memorie oppure menzogne? È qualcosa che stanno raccontando? Oppure – come in True Detective – dicono palle all’investigatore, ma le immagini ci mostrano quel che è veramente accaduto? C’è una verità più vera dell’altra? E l’investigatore – che dice cose diverse all’uno e all’altra – a che gioco gioca? Sta mentendo, anche lui? Oppure c’è un ulteriore piano di racconto che non conosciamo ancora? Questo è il rebus da sciogliere che mi ha tenuta incollata alla visione: mi rendo conto che a qualcuno possa dare fastidio, apparire frustrante – soprattutto alla luce del finale – ma per me è stato uno spettacolo continuo costruito praticamente solo con le armi della scrittura (e della recitazione, considerato che ogni interprete recita almeno due personaggi diversi, nelle due versioni di Noah e Alison).

Un’ultima cosa, per tornare più o meno all’inizio: Noah e Alison sono due stereotipi, molti passi della loro storia sono prevedibili, pure il background che li circonda è popolato di clichè. La moglie super borghese che ha sposato l’aspirante scrittore per conferma e falsa ribellione, la figlia teenager in fase angst e perennemente in cerca di schiaffi, l’autore di bestseller che tratta continuamente di merda il genero; così come le due “madri” di Allison (hippie fuori tempo massimo una, chioccia iperprotettiva l’altra), il barista stronzo (“il Louie cattivo” lo chiamiamo io e Ilaria Feole), i quasi indistinguibili fratelli Lockhart, etc. È impossibile, ancora una volta, distinguere il vero dal falso: quanto è una merda il suocero di Noah e quanto invece è Noah a vederlo odioso in relazione al proprio fallimento come romanziere? Quanto è menefreghista la madre di Alison e quanto invece corrisponde all’immagine di crocerossina-martire-vittima che Alison costruisce per se stessa? La stessa domanda si ripete per quasi ogni personaggio – tranne forse per i due coniugi traditi, probabilmente i più approfonditi e sfumati di tutti (e questo cosa ci dice? Forse che Sarah Treem è “dalla loro parte” più che da quella di Noah e Allison?). E, mentre la narrazione prosegue, mentre Noah e Allison “allontanano” la simpatia dello spettatore, continuano a corrispondere ai clichè che rappresentano, e intanto si mutano, lentamente, nell’immagine che avevano, inizialmente, l’uno dell’altro: entrambi, alla fine, hanno acquistato una sicurezza e una sfacciataggine che inizialmente si negavano, quantomeno nel raccontarsi a se stessi. Che questo sia un segno del loro amore, oppure l’ennesima menzogna, ce lo dirà la seconda stagione. Di una serie che, più di tutto, si è dimostrata capace di mettere in scena l’imprendibile relatività del vero.

Part II – Mara

“Non voglio rovinare il ricordo”. Almeno una volta nella vita abbiamo sperimentato il timore di rivedere un film, leggere di nuovo un libro, tornare in un luogo per poi trovarci di fronte a una realtà che sovrascriva, smentisca o corregga quello che abbiamo impresso nella memoria. Sappiamo che i nostri ricordi non sono nastri riavvolgibili su cui è fissata una realtà oggettiva che si riproduce identica a sé stessa, a comando. La nostra memoria è influenzata da una molteplicità di elementi ma soprattutto racconta un’esperienza già filtrata, nel momento in cui viene esperita, dal nostro stato d’animo, dal coinvolgimento emotivo, dalla capacità, predisposizione o addirittura volontà di vivere coscientemente il presente senza estraniarci con la mente per sfuggire a quello stesso momento. Perfino la sequenza temporale, nel ricordo, può subire alterazioni. Quello che ci accade è la percezione di quello che ci accade.

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Il pilot di The Affair prometteva di mettere in scena proprio questo: non, banalmente, due punti di vista ma due universi narrativi a occupare due piani esistenziali diversi legati da reciprocità. Il primo campanello d’allarme suona, però, proprio durante il pilot. La parte investigativa ha contestualizzato i due protagonisti Noah e Alison come due narratori inaffidabili, due persone con forse un interesse specifico nel raccontare una particolare versione dei fatti. Questo ha già sottratto parte del fascino all’avvicendamento dei due racconti introducendo un aspetto da mistery/crime drama, ma questo anziché aggiungere un ulteriore elemento di curiosità e interesse, ha spesso interrotto la doppia narrazione: per giustificarne la messa in scena non era necessario  inserire un interlocutore di riferimento. Lo spettatore sarebbe dovuto essere l’unico interlocutore di riferimento, il destinatario dei due racconti.

L’alternanza Noah/Alison ha potuto tener viva la curiosità per le prime puntate, ma quando quella che pareva essere una tecnica narrativa si è rivelata un semplice mezzo per raccontare il solito triangolo di corna ecco che la seconda parte – Alison – è diventata una noiosa ripetizione della prima. La storia di The Affair non ha nulla a che vedere con il rapporto tra realtà e percezione, desiderio e manifestazione del desiderio. Non abbiamo assistito al modo peculiare di due persone di avvicinarsi mettendo in comunione i due mondi emotivi di appartenenza. Quello a cui abbiamo assistito è una lunga sfilata di cliché in cui il massimo sforzo di approfondimento di un personaggio si è risolto nel rendere Alison una madre in lutto.

Noah è il luogo comune di un uomo mediocre di mezza età con aspirazioni da artista che evade dalla routine trovando la grande passione in vacanza con una cameriera con tanta tristezza dentro. Alison è il luogo comune di una cameriera con tanta tristezza dentro che evade dalla vita di provincia grazie alla passione con lo Scrittore. I rispettivi coniugi non offrono molto di meglio e allo stereotipo di una ex reginetta del Liceo mai cresciuta davvero che paga i conti grazie alla paghetta di mamma e papà, corrisponde il rude, ma dal cuore tenero, cowboy.

I personaggi secondari, dalla mamma iperprotettiva di Cole in opposizione alla mamma new age di Alison, completano il quadro con l’ultima pennellata a rappresentare semplicisticamente il mestiere dello scrittore. Nulla a che vedere, quindi, con la puntata The Decision Tree di The Good Wife con la quale The Affair sembrava condividere l’inteEpisode 104nto. I King, autori della serie sulla buona moglie, avevano spiegato: “Trying to show how memory actually plays out.  Never neat and linear.  All over the place” aggiungendo una probabile stoccata a True Detective “…and as a great prophet once said, memory is sometimes mis-remembered”. Il riferimento a Rust Cohle, reale o meno, è pertinente considerati i numerosi aspetti comuni alle due serie e, come ha sintetizzato brillantemente Emily Nussbaum, The Affair può essere definito “True Detective: For Her” in cui – dico io – le scene di sesso vengono sostituite dalle scene d’amore. L’unica novità portata dalla serie è l’essere riuscita a co-stringere una soap opera in un formato da miniserie, perché in ultima analisi The Affair è una glossy soap che tenta di darsi un tono, è un lettore di Nicholas Sparks convinto che la montatura degli occhiali in tartaruga e la giacca in tweed siano sufficienti a renderlo un lettore “impegnato”.

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